“Eppure
in giro non vedo grandi atti di ribellione. La rivolta mi sembra più
che altro un argomento invocato da coloro che si annoiano nel tempo
che gli resta dopo aver saziato i propri bisogni privati. Se le cose
stanno così, vuol dire che la rivolta oggi è una parola priva di
speranza”. (Andrea
Patella)
Mentre
questa crisi mondiale sembra staccare a morsi la
carne viva dei popoli, qui da noi in Calabria, un tempo
conosciuta come “Magna Grecia”, culla di cultura e
civiltà, forgia di pensiero filosofico, crocevia di scambi e di
commerci, sembra quasi di vivere in un film o in una realtà
parallela. Come se quello che sta succedendo né ci interessi, né ci
tocchi, né sia destinato a travolgere, insieme al resto del paese,
anche la nostra vita.
Viviamo
immersi in un sogno, in una realtà amniotica, dove il contatto con
il mondo esterno è solo ovattato. E ascolti parole quasi a mezza
bocca, quasi come se ci fosse nei calabresi un rifiuto ad accettare
la realtà, a procrastinare nel tempo quella data di scadenza che
sembra iscritta a caratteri cubitali sul nostro paese, sulle nostre
libertà, sul nostro ormai solo ostentato benessere. E ci aggrappiamo
ad un filo d'erba sottile sull'orlo di un precipizio, convinti di
stringere in mano una fune d'acciaio e che in qualche modo basti poco
per tirarsi su.
E
in ogni dove si festeggia, non si sa bene cosa, come se niente fosse,
inconsapevoli, forse appunto volutamente inconsapevoli.
“La
stagnazione culturale che vive questa terra, il disinteresse
giovanile nell'affrontare determinate tematiche in un momento
cruciale della storia mondiale e la totale mancanza di condivisione e
di discussioni produttive per il bene comune saranno la condanna a
morte di intere generazioni.
Oggi
viaggiamo spediti verso un abisso e lo facciamo cantando e ballando,
boriosi e soddisfatti di apparire, senza senso spazio-temporale,
senza logica alcuna”. (Italo
Romano)
E
siamo qui, in mezzo ad una strada, mentre un tir a tutta velocità
sta piombandoci addosso, con tutto il suo carico d'orrore e di
disperazione.
Qualche
giorno fa ho scritto questo, in un momento di sconforto, di paura, di
angoscia.
Ho
paura del vento che urla parole sfocate...
ho
paura di ciò che ascolto...
delle
grida disperate che odo in lontananza...
e
ho paura ad essere solo in loro presenza.
Non
è il cielo scuro carico d'acqua
a
farmi paura...
né
la pioggia, né il muggìo delle onde.
Mare
in tempesta...
su
di noi.
Vedo
lontano,
con
il palmo sugli occhi,
strizzati
da vento sferzante.
E
li sento arrivare.
Non
è il pianto disperato di mia madre
che
mi lacera l'anima
né
il dover fuggire da ogni cosa
né
i segni incisi nella carne da un addio.
Vedo
lontano.
E
stanno arrivando.
Sui
loro battelli di morte,
disperazione,
dolore.
Ho
paura per me,
vittima
e carnefice di questa umanità,
lacerata,
sconfitta.
Simile
ad un foglio stracciato.
Chiudo
gli occhi.
E
penso a domani.
E
quei battelli...
saranno
solo un altro giorno
più
vicini.
E
non è cambiato molto da allora. Perchè vedo negli animi più vivi,
la rassegnazione. Nelle vecchie generazioni la stanchezza. Nelle
persone informate, la paura. E manca qualcosa. Manca la capacità di
accendere una scintilla di coscienza. Quell'attimo indispensabile di
lucidità che un popolo deve concedersi per non farsi beffare,
truffare, sottomettere, uccidere.
Vedo
persone perfettamente inconsapevoli, che vanno avanti ogni giorno
come ieri, come un anno fa, come dieci anni fa. E tutto per loro
sembra immutato. Proprio mentre il mondo cambia volto per sempre. E
la Storia scolpisce incessante i giorni nostri.
Ed
è forse una storia che si ripete, nelle calabre terre, dove anche il
portentoso (quanto inutile) sessantotto è passato e
la gente sembra quasi non essersene accorta. E come avrebbe potuto?
Sarà
il destino di questa terra, non so, non voglio crederci, non posso
accettarlo.
Ma
adesso chiudo gli occhi e penso a domani.... e quei battelli sono di
nuovo un altro giorno più vicini.
(Francesco
Salistrari)
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